Scenari

Perché in Europa non è finita la cura della politica monetaria

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di Giuseppe Russo – Direttore Centro Enaudi di Torino

I mercati hanno provato una moderata delusione quando, la scorsa settimana, sia la Fed che la Bce, a distanza di un giorno, hanno entrambi alzato i tassi di riferimento di un quarto di punto. A questo punto i tassi americani riprendono a salire, arrivando al 5%, mentre quelli europei si fissano al 3,25% per le operazioni di deposito presso la banca e al 4% per le operazioni di rifinanziamento.

Ma per capire cosa sta succedendo occorre fare un passo indietro. Cosa c’è che non sta funzionando? La traiettoria di rientro dell’inflazione al 2% di target, che vale ancora sia al di qua che al di là dell’Atlantico, pare più accidentata.

Se si analizza la situazione, negli Usa l’inflazione generale, quella dei prezzi al consumo e che comprende tutti i consumi degli americani, è arrivata (a marzo 2023) al 5%, ma quella core è ancora superiore, ossia al 5,6%. Quella core non considera i contributi dei prodotti “ad alta volatilità”, come il cibo e soprattutto l’energia, e riconoscere che l’inflazione al netto del contributo energetico supera quella totale significa che le cause dell’inflazione non sono più esterne, ma interne al sistema economico. Per gli Usa sembra che il responsabile sia il surriscaldamento del ciclo economico, drogato dalla spesa pubblica pandemica e post pandemica, cosa che induce una apertura di nuovi posti di lavoro maggiore della disponibilità dovuta al normale turnover. In ogni modo (come si vede nel grafico accanto), l’inflazione core negli Usa è maggiore della totale, però almeno è in discesa. Quindi le cose vanno migliorando, anche se più lentamente del previsto.

Per l’Europa la condizione sembra più complessa. L’inflazione core è inferiore alla media (5,7% rispetto a 6,9%), ma c’è poco da rallegrarsi perché intanto essa è superiore a quella americana, che scende, mentre l’inflazione-core europea è ancora in crescita. Escluso che si tratti di inflazione da eccesso di domanda, dato che l’Europa da sempre ha un Pil potenziale più distante da quello effettivo degli Stati Uniti, le cause potrebbero trovarsi in due fenomeni: uno in via di esaurimento, ma che si è verificato (l’inflazione da margini) e non è stato riconosciuto, e uno che invece potrebbe essere perdurante (l’inflazione da scarsità di lavoro qualificato).

Andiamo per ordine. L’inflazione da margini è una figura ricorrente e che si associa al repricing dei beni quando c’è molta volatilità. Alcuni sostengono, con diverse evidenze, che quando i prezzi si muovono tutti insieme e in fretta, per adeguarsi ai costi, ci sono i furbi che se ne approfittano per creare extraprofitti. Questo poteva essere vero quando l’informazione sui prezzi al consumo era difficile da trovare e costosa da analizzare. Internet ha reso tutto il pianeta produttivo e commerciale un listino a cielo aperto, e questo tipo di inflazione da margini potrebbe non esserci o costituire casi non diffusi.

Invece c’è evidenza (come si vede sempre dal grafico) di un aumento dei prezzi alla produzione dei prodotti manufatti (al netto dei settori delle costruzioni e dell’energia) – che chiameremo “inflazione alla produzione core” – i quali sono cresciuti molto oltre i prezzi al consumo, sia in passato ma anche adesso. Si tratta di variazioni ingiustificate? Difficile a dirsi, ma siccome i prezzi alla produzione si confrontano su un mercato dove gli acquirenti, che sono le imprese di distribuzione, hanno una notevole forza concorrenziale, è più probabile che a farli muovere siano stati gli aumenti dei costi dei fattori di produzione. Abbiamo sempre considerato solo l’energia come driver dell’inflazione da costi, ma a seguire le mosse delle banche centrali è aumentato non poco il costo del denaro, che rappresenta un fattore di produzione importante sia per finanziare gli investimenti, sia per finanziare il magazzino – cosa sempre più essenziale con le scarsità di materie prime e beni intermedi che abbiamo visto – sia per finanziare il circolante.

Questa inflazione da margini proprio non era stata prevista, ma è ragionevole che si sia verificata. La buona notizia è che una volta assorbito lo scalino di aumento dei costi, l’inflazione da margini dovrebbe fermarsi ed essere moderata dalla concorrenza tra i produttori e dal potere di mercato dei distributori. La cattiva notizia è che siccome buona parte della produzione del settore manifatturiero è rivolta alla produzione di beni intermedi e non finali, il processo di trasmissione di questa inflazione non si esaurisce se non alla fine di un periodo di tempo più lungo, che considera tutti i passaggi che fanno i prodotti intermedi prima di essere venduti dentro un bene finale. Questa è la ragione per cui l’inflazioneda margini produttivinon è ancora scesa sotto quella del prezzi al consumo core (5,7%), cosa che dovrebbe accadere per riuscire a piegare la curva dell’inflazione generale, che poi è il vero obiettivo.

Cosa cambia, rispetto ai piani di qualche mese fa? Cambia di sicuro la prospettiva della durata e dell’intensità della medicina di politica monetaria che verrà somministrata. La cura, in altri termini, non può finire qui. Se misuriamo la cura monetaria con un indicatore appropriato, ossia con il tasso di interesse base (interbancario), reale, ma al netto dell’inflazione core, il risultato si vede in questo secondo grafico. Negli Usa il tasso reale core, aggiustato, è pari a -0,9%, quindi considerato che un obiettivo realistico potrebbe essere zero, la politica monetaria potrebbe essere arrivata o quasi al suo bersaglio. Anche perché l’inflazione va riducendosi e quindi la medicina (tasso reale) marcia verso lo zero da sola. In Europa la prospettiva cambia, perché il tasso reale core è ancora -3,2% quindi i rialzi, che sono iniziati dopo quelli Usa e che hanno quasi 2 punti di distacco, saranno probabilmente di più e finiranno più tardi.

Un’ultima osservazione sull’inflazione nel lungo periodo. Non è detto che tra qualche anno non saremo costretti a rivedere il target di inflazione. Due per cento era un numero magico al cui perseguimento contribuiva la disinflazione dovuta al costo del lavoro dei beni importati dalla Cina e dintorni. Questa disinflazione sta per finire. Peraltro, nei Paesi occidentali stanno assottigliandosi le generazioni che entrano nel mercato del lavoro e, con il pensionamento di massa dei baby boomers, i nuovi lavoratori potrebbero essere più scarsi del recente passato. Soprattutto se si considerano la domanda di quelli ben formati nelle competenze nuove che servono alle aziende per tenere il passo dell’innovazione.

Insomma, l’inflazione della pandemia e della guerra impiegherà più tempo per ridursi, tanto che in Italia quella acquisita per il 2023 è il 5% (4% la componente core). Inoltre, raggiungere il target potrebbe non essere a portata di mano. La prudenza che si richiede da molte parti al banchiere centrale europeo non è priva di ragioni economiche sostanziali. Lo zelo nel rialzare i tassi dovrebbe considerare un punto di arrivo compatibile con una situazione dell’inflazione strutturale, per certi versi nuova e diversa da un passato irripetibile.