La Settimana Internazionale

La Turchia al bivio tra imperialismo e addio all’era Erdoğan

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di Attilio Geroni

Sono elezioni importanti per gli equilibri internazionali quelle che si terranno in Turchia il 14 maggio. La domanda chiave di questo voto è: il presidente Recep Tayyip Erdoğan, al potere da 20 anni, ce la farà a essere rieletto oppure il Paese ha deciso che la sua era è giunta al termine?

I sondaggi suggeriscono, per la prima volta dopo tanto tempo, che la sconfitta è una possibilità. L’avversario del presidente è Kemal Kılıçdaroğlu, 74 anni, leader della più importante forza politica d’opposizione, il Partito popolare repubblicano (CHP). Poco carismatico, quasi compassato, è paradossalmente il personaggio adatto per far scendere la Turchia dall’ottovolante sul quale l’ha fatta viaggiare Erdogan negli ultimi anni, tra il golpe sventato del 2016, la crisi economica e una deriva sempre più autoritaria.

Kılıçdaroğlu è stato scelto per guidare una coalizione formata da sei partiti, spuntandola su personaggi senza dubbio più popolari come i sindaci di Ankara e Istanbul. Nella coalizione c’è anche il partito pro-curdi, HDP, e ciò significa che in caso di vittoria la Turchia darà finalmente il via libera all’ingresso della Svezia nella Nato. Altre possibili conseguenze internazionali riguardano i rapporti con l’Unione europea, un rilancio dei negoziati per l’adesione e forse una politica meno assertiva e invadente nel Mediterraneo.

È però sull’economia che si gioca la grande partita elettorale che vede in contemporanea voto presidenziale e parlamentare. Qui Erdoğan, soprattutto negli ultimi anni, ha molto di cui farsi rimproverare avendo perseguito una politica monetaria autarchica che ha affrontato il tema dell’alta inflazione tagliando ripetutamente i tassi d’interesse.

La sua priorità è stata la crescita a ogni costo, sostenuta spesso con opere infrastrutturali faraoniche. Il Pil quest’anno potrebbe crescere del 5%, ma il valore della lira rispetto al dollaro è oggi un decimo rispetto a dieci anni fasi e l’inflazione è fuori controllo: al 50% secondo le statistiche governative, almeno il doppio secondo economisti del settore privato.

L’erosione del potere d’acquisto è stata drammatica per milioni di turchi contribuendo ad alimentare il risentimento nei confronti del presidente.

Erdoğan ha cercato di attenuare un’impopolarità crescente raddoppiando il salario minimo e togliendo alcuni requisiti per l’età pensionabile che ha permesso ad almeno due milioni di turchi di andare in pensione.

Gli basteranno queste prebende elettorali per essere confermato? Dalla sua il presidente ha senza dubbio un forte carisma e un controllo pervasivo dei media più importanti che si è inasprito dopo il golpe del 2016. Non è escluso un recupero di popolarità nelle fasi finali della campagna grazie alla sua abilità oratoria.

Ma a pesare sulle sue possibilità di rielezione c’è anche il terremoto che in febbraio ha devastato il Paese causando oltre 50mila morti e danni per circa 100 miliardi. La catastrofe ha evidenziato una logistica disastrosa dei soccorsi, con ritardi e caos, e una impressionante debolezza strutturale del patrimonio edilizio causati da decenni di abusivismo e gestione approssimativa del territorio per una zona ad alto rischio sismico.

L’eventuale sconfitta di Erdoğan porterebbe inoltre a importanti cambiamenti istituzionali e alla fine dell’iper-presidenzialismo (dopo le riforme degli ultimi anni è il capo di Stato a nominare il governo e la figura del primo ministro è stata abolita) a favore di una repubblica parlamentare. Il problema è che per ottenere le modifiche costituzionali i sei partiti oggi all’opposizione e riuniti sotto la candidatura di Kılıçdaroğlu dovranno conquistare 400 seggi parlamentari su 600 (360 per avviare un’iniziativa referendaria).

Non sarà in ogni caso facile porre fine all’era Erdoğan. Al momento lo scenario elettorale più plausibile è quello di un ballottaggio poiché al primo turno nessuno dei due candidati, secondo alcune proiezioni, raggiungerebbe la maggioranza assoluta. Erdoğan è un combattente e farà di tutto per restare al comando continuando a esercitare la sua influenza su Mediterraneo e Nord Africa e a proporsi come mediatore tra Ucraina e Russia.

Un grande partner economico e politico per lItalia

La Turchia è sempre stato un partner economico e politico rilevante per l’Italia. I rapporti commerciali nel 2021 avevano raggiunto un interscambio di quasi 20 miliardi di euro, di cui 9,5 miliardi in esportazioni, Nel Paese operano stabilmente oltre 1.500 imprese con capitale italiano mentre la storica presenza produttiva di Fiat, ora confluita in Stellantis, continua ad essere un’importante realtà industriale del Paese nell’assemblaggio di auto e veicoli commerciali. Al 2021 lo stock complessivo di investimenti diretti italiani in Turchia ammontava a sei miliardi.

Macchinari e attrezzature, autoveicoli e chimica sono i settori più importanti per le nostre esportazioni.

Le relazioni con Ankara sono rilevanti anche per quanto riguarda il settore energetico. Il Tanap (Trans Anatolic Pipeline) poi collegato al Tap rappresenta una delle rotte di approvvigionamento di gas più importanti per l’Italia, anche alla luce della crisi con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Dopo un momento di grande tensione durante il governo di Mario Draghi (che aveva definito Erdogan «un dittatore») i rapporti hanno conosciuto una nuova normalizzazione grazie a un vertice tra i due Paesi nel luglio 2022. In quell’occasione (Draghi ancora premier) sono stati firmati nove accordi di cooperazione in vari ambiti, compresi energia e difesa. A favorire il disgelo anche il ruolo di mediazione assunto dalla Turchia tra Ucraina e Russia che ha portato allo sblocco del trasporto di grano in arrivo dal Mar Nero.