Inchieste

Il pesce in vitro qui non abbocca

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di Paolo Della Sala

 

Perché ci occupiamo di pesce coltivato in vitro? Pensiamo al contesto: in pochi decenni il Mediterraneo ha perso il 60% del suo patrimonio ittico. L’ecatombe è dovuta alla pesca intensiva: in dieci anni i bracconieri hanno abbandonato attorno alle isole Eolie migliaia di chilometri di Fad (in siciliano “cannizzi”, strutture ombreggianti fatte con canne o foglie di palma che attirano il pesce sotto di esse). Poi ci sono le spadare e ferretare, che intercettano tutto ciò che passa. Non meno dannoso è il rilascio in mare di migliaia di tonnellate di saponi, varechine, ammoniaca e altri acidificanti, letali per la flora e la fauna. Senza dimenticare le isole di plastica…

Non sappiamo ancora con precisione quanto le carni da cellule staminali possano essere un’alternativa alla pesca o all’allevamento di bovini e polli. Di sicuro la FAO sostiene la ricerca su questi prodotti, comunque privi di microrganismi infettivi e che non prevedono la morte di animali (dai quali vengono prelevate cellule poi fatte moltiplicare da bioreattori).

Se l’Italia è leader mondiale riconosciuto del food, viene da chiedersi perché il governo dovrebbe bloccare la ricerca in questo campo, costringendo poi all’importazione di pesce coltivato in vitro da Olanda e Germania, attuali leader europei. Non converrebbe restare all’avanguardia anche in questi prodotti? Da anni consumiamo hamburger di soia, non sembra che ciò abbia danneggiato gli allevatori e i pescatori.

Sul versante del pesce derivato da colture cellulari, molte aziende nel mondo sono già in fase avanzata. La tedesca Bluu Seafood, ad esempio, propone bastoncini di pesce in vitro; diverse imprese israeliane sono pronte per la commercializzazione di carne e pesce. La statunitense Wildtype produce salmone e pesce coltivato per sushi ed è finanziata da investitori come Jeff Bezos e Vip ambientalisti come Leonardo di Caprio. Ancora, la coreana Cellmeat lavora alla produzione di gamberetti e caviale Osetra. Riguardo la produzione di pesci e crostacei in vitro il centro mondiale più importante di ricerca e produzione è a Singapore, dove ha sede l’azienda Shiok meats, che ha come claim “Seafood, reinvented” (), e che ha iniziato la commercializzazione nel 2020, seguita da Wildtype nel 2022. Il settore sta conoscendo una crescita impetuosa, in una continua rincorsa tra la spinta verso la sostenibilità e il freno dei costi elevati.

Al momento la pesca intensiva non può essere sostituita dall’itticoltura biologica, che non ha risolto il problema della grande quantità di feci rilasciate sotto le gabbie dove i pesci vengono allevati.

In Italia l’unica azienda del settore è la Bruno Cell Srl di Trento (brunocell.com). Abbiamo chiesto informazioni sul contesto italiano a Bruna Anzà, responsabile della comunicazione. «Bruno cell è una start up che ha avuto finanziamenti privati e pubblici e in Italia collabora con i dipartimenti di biologia di Trento e di Tor Vergata a Roma. La nostra attività è limitata alla prima fase, la ottimizzazione delle linee cellulari. A oggi non prevediamo di passare alla produzione, anche perché mancano i presupposti politici che attirino ricercatori, imprenditori e investitori».

«Dal punto di vista tecnico non ci sono differenze specifiche tra carne e pesce da cellule coltivate – aggiunge Anzà – La metodica di base è la stessa, a parte le variazioni sul tipo di fibra e di specie. In realtà anche il latte può essere prodotto con lo stesso sistema delle cellule staminali».

L’ennesimo “indecisi a tutto” italiano disincentiva anche l’iscrizione di nuovi studenti ai corsi di biotecnologia applicata, e incentiva i neolaureati a emigrare. Tra l’altro, qualora la Efsa – l’autorità Ue per la sicurezza alimentare – approvi l’uso di carne di coltura negli Stati membri, l’Italia non potrebbe opporsi alla loro importazione.